Nei giorni scorsi, tra le varie ricerche in internet e letture, mi sono imbattuta in un sondaggio in cui si chiedeva al campione intervistato di dire che tipo di emozioni stavano provando in questo periodo.
Tra i vari valori, vorrei concentrarmi sui primi tre: un grande percentuale (52%) afferma di percepire incertezza; il 38% speranza; il 33% vulnerabilità.
Molti di noi possono rivedersi in questi dati: stiamo vivendo una condizione di instabilità, che non sappiamo quanto durerà, che ci rende scoperti rispetto alle nostre certezze, alla nostra prevedibile quotidianità.
È normale percepirci vulnerabili, perché stiamo affrontando una realtà a cui nessuno di noi era preparato. La vulnerabilità è proprio questo: avere la sensazione di non avere sufficienti elementi per comprendere, valutare e decidere cosa poter fare. È come se da un giorno all’altro ci fossimo trovati a dover fare i conti, senza avere i numeri. O a disegnare, senza avere pastelli.
Non sappiamo quanto durerà questa situazione, anche se ormai si è fatta strada l’ipotesi che dovremo conviverci molto più a lungo di quanto pensavamo un mese fa.
Viviamo sospesi, in una bolla. Viviamo in attesa.
“Attesa” è una parola neutra, è un contenitore in cui ognuno di noi mettere le proprie predisposizioni, emozioni, comportamenti, scelte.
Permettetemi una metafora: è come se fosse una stanza, in cui ognuno di noi è stato catapultato.
La caratteristica più importante di questa stanza è che possiamo arredarla come preferiamo. Certo, le mode del momento, quello che ci suggeriscono gli altri, quello che abbiamo sentito dire, le nostre precedenti esperienze, tutto questo ci condiziona e per certi versi è un bene. Se fosse pieno inverno, sarebbe estremamente utile sapere che le finestre non possono stare aperte tutto il giorno, altrimenti sprecheremmo il calore interno e rischieremmo di congelarci.
In tutti questi elementi esterni, però, noi facciamo la differenza. Siamo noi che arrediamo la stanza.
Nell’incertezza del futuro, nella vulnerabilità che percepiamo, nella speranza che ricerchiamo nell’oggi e nel domani, un’importante strategia è concentrarci sul presente.
Com’è arredata oggi la nostra attesa? Di cosa l’abbiamo riempita nelle settimane scorse? Qual è il suo colore prevalente? Che odore pervade l’interno? Che suono si sente? È ordinata o caotica? La finestra (mettetela la finestra) lascia entrare e uscire l’aria? E la luce?
Vogliamo mantenere l’arredamento o vogliamo cambiare mobili?
E la porta? È chiusa, accostata o spalancata? Disturbo o accolgo? Lascio entrare qualcuno?
E se la nostra stanza d’attesa ora è scomoda, proviamo a trovare o a ricreare un luogo confortevole in cui sostare e rifugiarsi. Cerchiamo di coltivare quella speranza e fiducia in noi stessi e nelle nostre risorse.
Ora spostiamo lo sguardo: “come stanno vivendo l’attesa le altre persone che vivono con me? Posso imparare qualcosa da loro o posso essere utile? Posso accoglierli nella mia stanza o posso fare una visita nella loro?”.
Un’ultima riflessione per chi ha figli, in particolar modo adolescenti.
Noi abbiamo imparato a vivere in quel mondo immediato; loro ci sono nati e si sono formati in quel mondo.Questa attesa e questa incertezza, se sono nuove per noi, sono ancora più inedite per loro: sono forzatamente obbligati ad attendere, a doversi relazione con la frustrazione del non sapere quando la vita (soprattutto sociale) riprenderà e come riprenderà.Questo aspetto, insieme a tanta precarietà negativa, sta offrendo a loro un’occasione unica. Faticosa, destabilizzante, incerta; ma unica.
Cerchiamo di capire come stanno arredando la loro stanza dell’attesa, cerchiamo di rispettare le loro scelte e i loro gusti; e offriamo loro la nostra stanza (che magari sarà l’opposto!) con cui potercisi confrontare.